lunedì 25 novembre 2013

55^ BIENNALE DI VENEZIA: L'ARSENALE 1^ parte

Venezia 55^ Esposizione Internazionale d’Arte: Il Palazzo Enciclopedico 


Nel novembre del 1955 l’artista italo-americano Marino Auriti depositò presso l’ufficio brevetti dei progetti per un Palazzo Enciclopedico ovvero un museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità. Il progetto non è mai stato realizzato ma è stato di ispirazione al curatore Massimiliano Gioni per sviluppare il tema della 55^ Biennale di Venezia.
La mostra, come il Palazzo Enciclopedico di Auriti, di cui prende il nome, indaga il desiderio impossibile, che attraversa da sempre la storia dell’umanità accomunando personaggi eccentrici, artisti, scrittori, scienziati e profeti, di conoscere tutto e, spaziando dall’inizio del Novecento ad oggi, raccoglie opere d’arte, reperti storici e artefatti sia di artisti professionisti che di dilettanti. Il curatore sembra invitarci ad indagare il mondo degli artisti per riflettere su che cosa ispira la loro creatività e qual è il confine dell’arte.
Che cosa è arte? E che ruolo gioca la realtà ordinaria sulle spinte creative degli artisti? Quale spazio è concesso al sogno, alle visioni e alle immagini interiori in un’epoca assediata dalle immagini esteriori?


 Il palazzo enciclopedico progettato da Auriti 


J. D. ‘Okhai Ojeikere, Nigeria 1930
Cresciuto in un piccolo villaggio nigeriano, l’artista alla fine degli anni Sessanta cominciò a documentare i diversi aspetti della cultura nigeriana immortalando le elaborate acconciature e i turbanti delle donne, le cui complesse architetture possono richiedere giorni o anche settimane per essere completate. Le immagini non rappresentano solo una semplice antologia dei volubili capricci della moda o della perizia virtuosistica degli acconciatori ma documentano anche gli stili tradizionali di alcuni gruppi etnici, il loro significato (ad esempio la posizione sociale) e l’evoluzione dei cambiamenti individuali e collettivi della Nigeria dopo che i tradizionali confini etnici avevano iniziato a dissolversi. 





Eduard Spelterini, Switzerland 1852-1931
Nel 1858 il fotografo e aeronauta francese Gaspard-Felix noto come Nadar, scattò a bordo di un pallone aerostatico la prima fotografia aerea che si conosca. L’immagine, oggi perduta, diede il via alla moda della fotografia aeronautica. Uno dei più importanti professionisti di questo nuovo genere fotografico fu Eduard Spelterini, un ascensionista di fama mondiale che fu il primo a varcare le alpi per via aerea nel 1898. Le fotografie di Spelterini divennero famose quando cominciò a presentare al pubblico le sue spedizioni in pallone aerostatico mediante spettacoli di proiezioni di diapositive all’avanguardia. 




Stefan Bertalan, Romania 1930
Secondo l’artista rumeno l’intrinseca complessità presente nei più semplici elementi naturali come le piante o gli insetti, permea il quotidiano di un profondo significato spirituale e filosofico e fornisce un mezzo per l’espressione individuale. Riflettendo sulle strutture geometriche che sottostanno al mondo naturale e attingendo a nozioni ingegneristiche, biologiche, matematiche e filosofiche l’artista arriva alla conclusione che un singolo organismo funge da microcosmo simbolico dell’intero universo. Questa deduzione nacque dopo che l’artista studiò per 130 giorni l’intero ciclo vitale di un girasole documentando le evoluzioni con fotografie, disegni e un diario. 




Hans Josephsohn, Russia 1920-2012
Nato nella Prussia orientale, l’artista fuggì dal Terzo Reich nel 1938 rifugiandosi in Svizzera. Rifacendosi al vocabolario riduttivo delle cattedrali romaniche e alla rappresentazione del corpo umano nella scultura medievale, l’artista sviluppò sculture e rilievi appena abbozzati. Le sculture sembrano rappresentare il mito del Golem, una figura immaginaria del folklore ebraico che secondo la leggenda era stato plasmato nella creta da un rabbino nel tentativo di proteggere gli abitanti del ghetto di Praga. In maniera simile le mezze figure e le stele di Josephsohn sembrano sentinelle in attesa o sculture votive. 


Yuksel Arslan, Turkey 1933
Noto come “l’artista-lettore” per le centinaia di opere filosofiche, storiche, letterarie e scientifiche su cui si è cimentato, produce a partire da 1955 una serie di oltre settecento opere note con il nome di Artures, un neologismo composto da “art” e dal suffisso francese –ture, che costituiscono palinsesti reinventati di storie religiose, trattati filosofici e tassonomie biologiche. L’artista attinge ai suoi studi su diversi scrittori e pensatori o alle sue indagini sulle diverse condizioni mentali e fisiche dell’uomo (es Morbo di Parkinson, impotenza, aprassia etc)
Ossessive e dettagliate le opere dell’artista sono rappresentate con una formula pittorica a base di potassa, miele, albume d’uovo, olio, midollo osseo, sangue e urina che determinano il prevalere del paglierino e del rossastro nella sua tavolozza, conferendo al lavoro dell’artista una qualità organica e personale. 



Phyllida Barlow, UK 1944
Molta della produzione di questa artista consiste in sculture di grande formato prodotte con materiali economici e di recupero che invadono volutamente lo spazio espositivo creando ostacoli ed intralci che paiono simulare aspetti trascurati del paesaggio urbano. Una sorta di monumentalizzazione dei detriti della vita contemporanea. Spesso le sculture stesse vengono riciclate e riutilizzate smantellandole e riconfigurandole in nuove combinazioni. L’artista ha cominciato ad acquisire fama internazionale solo di recente. 


Jakub Julian Ziolkòwski, Poland 1980
I fantasmagorici dipinti di questo artista pulsano e brulicano di vita mutante: dalle piante germogliano seni e bulbi oculari; gli organi interni si fanno strada fuori dai corpi come vermi e da oggetti inanimati spuntano capelli mentre i volti si deformano come affetti da innominabili virus. Nel loro insieme questi elementi tracciano la topografia di un mondo oscuro e surreale nel quale la natura è una minaccia permanente e gli inquietanti paesaggi mentali dell’artista sembrano espandersi a dismisura. L’artista definisce questi dipinti la “cosmologia delle mie bestie personali” ovvero una visione di ciò che accade quando la mente diventa essa stessa un pianeta. 












Shinichi Sawada, Japan 1982
Affetto da una grave forma di autismo, Shinichi Sawada parla a stento e preferisce esprimersi attraverso le sue sculture che attingono ad una mitologia personale ispirata probabilmente all’antica tradizione popolare giapponese; un bestiario in continua espansione di figure e maschere di creta, che ha iniziato a produrre nel 2001 mentre risiedeva in una struttura per persone affette da disturbi mentali. Ora l’artista vive autonomamente e si reca con regolarità nello studio in cima a una montagna dove modella e cuoce i suoi lavori. Tutte le opere – draghi, demoni, figure totemiche dai molteplici volti, maschere contorte e ululanti – sono irte di spuntoni di creta, che conferiscono loro una bellezza intricata e ornamentale ma anche un carattere minaccioso. E’ interessante notare come le opere richiamino alla mente anche le arti delle società tribali dell’Africa con cui l’artista potrebbe essere venuto in contatto tramite riproduzioni. Le punte ricordano i segni lasciati dalle pratiche rituali di scarificazione il cui significato sembrerebbe quello di tener lontana la morte mentre i chiodi conficcati, di cui sono ricoperte le figure antropomorfe, sembrano avere carattere protettivo. Le misteriose creature di Sawada sembrano talismani e la ripetizione delle forme suggerisce un qualche potere curativo. In ogni caso sono testimonianze evocative ed enigmatiche della vita interiore dell’artista.
  





Arthur Bispo do Rosàrio, Brazil ca.1910-1989
Durante cinque decenni di ricovero in un ospedale psichiatrico di Rio de Janeiro, l’artista ha prodotto oltre ottocento arazzi, sculture e sontuose vesti cerimoniali per il Giudizio Universale. Ex guardia marina faceva lavoretti saltuari quando nel 1938 ebbe una visione: Cristo e una schiera di angeli azzurri gli dissero che era stato scelto per presentare a Dio, alla fine dei tempi, il contenuto del mondo che riteneva degno di redenzione. Subito dopo aver raccontato questa apparizione Bispo fu internato in manicomio, dove trascorse il resto della vita, continuando ad inventariare meticolosamente ciò che riteneva sarebbe stato chiamato a presentare a Dio. Benvoluto dal personale ospedaliero, che gli risparmiò i trattamenti più brutali, fu lasciato libero di aggirarsi liberamente per la struttura e ottenne il permesso di raccogliere materiale per il suo lavoro che, depositato nella soffitta in cui lavorava, con il passare degli anni iniziò a invadere il resto dell’ospedale. Molte opere sono ricamate secondo un’arte usata tradizionalmente dagli uomini della città natale per creare stendardi religiosi. Con lenzuola, capi di abbigliamento scartati e scampoli di tessuto, e utilizzando spesso un filo azzurro ricavato dalle divise dell’ospedale, l’artista ha creato elaborati arazzi in cui sono catalogati nomi, navi e segnalazioni marittime, profezie, poesie, pittogrammi e testi che parlano dell’amore impossibile. Altre opere comprendono ordinati schieramenti di oggetti trovati o fatti a mano. Bispo creò intere flotte di navi in miniatura, eco del suo passato di marinaio e auspicio del suo futuro ruolo: come Noè raccoglieva il mondo nella sua arca da bricoleur. 













 


I disegni Panos
Disegnati dai reclusi delle prigioni degli Stati Uniti sudoccidentali, i panos o tessuti, sono parte di una tradizione artistica profondamente radicata nella cultura messicano-americana. Sono realizzati con mezzi assai spartani: penne biro e qualsiasi tipo di fazzoletto si possa trovare nello spaccio del carcere ed entrano a far parte dell’economia interna della prigione ( un pano, per esempio, può essere scambiato con due pacchetti di sigarette); al contempo costituiscono una forma di comunicazione con il mondo esterno. I reclusi mandano ai loro cari, come segno di affetto, panos fatti da loro o commissionati ad altri carcerati e in passato, attraverso riviste chicane, gli artisti dei panos erano soliti anche mettere annunci per cercare persone con cui scambiarsi lettere, creando contatti con donne attratte dalla prospettiva romantica di corrispondere con uomini in prigione.
Ogni artista possiede un personale catalogo di copie di motivi che inserisce nei suoi disegni, tratti da fonti varie come riviste pornografiche o di automobili, libri di storia messicana, iconografia cattolica e fumetti. Soggetti ricorrenti sono i diversi aspetti della vita dei carcerati: l’angoscia della reclusione, la droga, la violenza e altri risvolti della vita di strada; storie d’amore, reali e immaginate; simboli di devozione religiosa e di orgoglio etnico. Le immagini riflettono l’estetica dei graffiti del barrio e hanno analogie con quella dei tatuaggi; i panos permettono ai prigionieri di resistere agli effetti disumanizzanti della carcerazione semplicemente attraverso la forza di immagini che restituiscono identità personale e collettiva, preservano ricordi e veicolano l’espressione dei desideri fisici e spirituali. 








Bandiere vudù haitiane
Come molti aspetti della cultura caraibica, il vudù ha profonde radici in Africa ma nel corso dei secoli molte divinità haitiane sono state elaborate e alterate amalgamandosi con divinità amerindie ed europee, in particolare con i santi della Chiesa cattolica a cui si aggiungono generali, rivoluzionari, uomini di stato haitiani e spiriti ancestrali. Le cerimonie vudù si aprono con sfilate di striscioni riccamente decorati che rappresentano divinità o spiriti che possono essere invocati per ricevere aiuto e consigli offrendo ai credenti un conforto e una guida immediati. Come gli esseri umani che li evocano, tuttavia, sono anche soggetti all’ira alla lussuria e alla gelosia. 


Linda Fregni Nagler, Sweden 1976
L’artista ha accumulato centinaia di fotografie amatoriali e commerciali dell’Ottocento e del primo Novecento organizzando la sua collezione secondo temi e generi precisi. La collezione raccolta sotto il titolo The Hidden Mother è composta da quasi mille immagini originali di neonati tenuti in braccio da figure che sono nascoste ma visibili sullo sfondo. I lunghi tempi di esposizione richiesti dalle prime tecniche fotografiche rappresentavano un ostacolo per i genitori che volevano avere fotografie in cui fossero presenti solo i figli. Solo se tenuti in grembo o in braccio i bambini riuscivano a rimanere fermi per il tempo necessario a realizzare le immagini. Ecco allora che, ricoperte da drappeggi, appostate su un lato dell’inquadratura o nascoste da qualcosa, le madri – più raramente i padri -  tentavano di sparire diventando però all’occhio dell’osservatore esterno, delle presenze inquietanti. Le immagini mostrano analogie anche con un genere diffuso agli albori della fotografia ovvero il “post mortem” cioè la fotografia di defunti, specialmente bambini, che venivano vestiti e messi in posa come se fossero vivi. Usare la fotografia per far resuscitare i morti, o al contrario per cancellare gli esseri viventi, rivela un singolare impulso umano: il rifiuto della pretesa rappresentazione oggettiva della fotografia e il tentativo di creare invece, attraverso la fotografia stessa, una realtà che corrisponde ai nostri desideri. 






Ex voto del santuario di Romituzzo. XVI-XIX sec. Ca , Siena – Italia
Per millenni, le forme e lo stile degli ex voto sono rimasti prevalentemente invariati nonostante la loro sorprendente diffusione. Nelle varie culture e nei periodi storici più disparati offrono uno sbocco all’ “inestirpabile desiderio primitivo di avvicinarsi al divino”. La collezione di offerte votive qui presentata si è composta nel corso di secoli nella cappella del santuario di Romituzzo, un eremo del Trecento a nord di Siena. Poco dopo la fondazione del santuario, un dipinto anonimo della Madonna con il Bambino iniziò ad essere venerato dai devoti che, attribuendogli un miracoloso potere curativo, lasciavano offerte come supplica o per gratitudine. A metà del Cinquecento, fu costruita la cappella, per proteggere il quadro e ospitare l’enorme quantità di sculture anatomiche che si stava rapidamente accumulando. Gli ex voto contano ora oltre 5000 pezzi e raffigurano le diverse parti del corpo bisognose di guarigione: teste, gambe,piedi,mani,braccia, mezze figure e busti. Nel santuario sono ospitate anche figure intere a grandezza naturale. Gli ex voto erano per lo più fabbricati in cartapesta da artigiani. Nel corso dei secoli i colori della vernice che un tempo li decoravano si sono sbiaditi mantenendo visibili solo scarse tracce: appesi sulle pareti con lunghe corde, con il loro aspetto pallido e le forme eterogenee e ripetitive, evocano un ossario. Sia per il fedele che per i non credenti, tuttavia, questa profusione di rappresentazioni crude e seriali del corpo, rimane un’impressionante manifestazione del potere e dell’efficacia delle immagini. 


Carol Rama, Torino Italia 1918
L’interesse per l’arte che Carol Rama aveva sviluppato già da bambina la spinse a dipingere con il rossetto e lo smalto per unghie della madre. Tuttavia a segnare il suo lavoro, oltre a questi primi esperimenti con media insoliti, sono stati due traumi infantili: il suicidio del padre, in seguito al fallimento della sua azienda automobilistica, e i frequenti ricoveri in ospedali psichiatrici della madre affetta da disturbi mentali. Fin dall’inizio della sua carriera, Rama ha considerato l’arte come una forma di terapia. Anche se non aveva mai studiato arte, Rama strinse rapporti con molti artisti, in particolare con il pittore Felice Casorati. Nel ’45 la polizia italiana confiscò le opere della sua prima mostra, ancor prima che venisse inaugurata, per il contenuto sessualmente esplicito. Le tematiche erano provocatorie e in anticipo sui tempi: raffigurazioni esplicite ed audaci della sessualità, che sfidavano i tradizionali ruoli di genere, severamente difesi dal fascismo, e anticipavano i dibattiti critici sul corpo e sulla sessualità che avrebbero impegnato gli artisti di tutto il mondo a partire dagli anni Sessanta e Settanta. Gli acquerelli degli anni Trenta e Quaranta sono incentrati su un repertorio di oggetti ricavati dall’esperienza personale: pellicce, che la madre vendeva in una piccola bottega, protesi per arti, che costituivano l’attività dello zio prediletto; letti di contenimento che l’artista vedeva andando a trovare la madre in manicomio oppure oggetti che intrattengono una stretta relazione con il corpo: dentiere, pennelli da barba, scarpe a punta così come genitali e lingue che si contorcono.











 
                                           
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